NUOVO METODO PER LA SCISSIONE DELL’ACQUA IN IDROGENO

Grafica acqua

Trovato un processo economico ed efficiente per un futuro energetico pulito.

I pannelli solari a silicio rappresentano circa l’85 per cento del mercato globale, ma la loro produzione ha un forte impatto ambientale dato che il silicio deve essere riscaldato a 2.000 o 3.000 gradi C, con conseguenti alte emissioni di CO2, NOx (ossidi di azoto) e SO2 (anidride solforosa).

Un ricercatore dell’Università dell’Alberta (Canada), in collaborazione con l’Università Tecnica di Monaco, sta impiegando la luce solare e catalizzatori semiconduttori per generare idrogeno, tramite il processo di scissione delle molecole d’acqua nei loro elementi costitutivi.

Professor Karthik Shankar al centro suo gruppo di ricerca

Il responsabile del progetto Karthik Shankar, professore alla Facoltà d’Ingegneria Elettrica e Informatica oltre ad essere esperto nel campo della fotocatalisi, ha spiegato come il sistema, chiamato polimerizzazione per condensazione, si avvalga di materiali abbondanti sulla Terra con la possibilità di arrivare, in futuro, ad un’energia più efficiente rispetto alle tecnologie solari esistenti.

Quali sono i principali catalizzatori

Shankar utilizza il nitruro di carbonio derivato dall’urea, un composto ampiamente disponibile e presente nei fertilizzanti, per assorbire la luce solare che eccita gli elettroni a un livello energetico superiore. Ogni elettrone e il “buco” lasciato dalla sua assenza producono due quasi-particelle, denominate in termini quantistici coppia elettrone-buco.

Se lasciate a se stesse, le quasi-particelle si ricombineranno per ripristinare l’equilibrio. Quando entrano in contatto con un catalizzatore di diossido di titanio, il nitruro di carbonio forma una giunzione tra semiconduttori dissimili, una cosiddetta eterogiunzione semiconduttrice, impedendo loro di ricomporsi.

Il diossido di titanio, un altro materiale comune ed economico, si lega agli elettroni del nitruro di carbonio che reagiscono con i protoni per creare idrogeno. Il buco si lega agli ioni idrossido nell’acqua generando ossigeno.

Il nitruro di carbonio ha una sorprendente resilienza chimica, flessibilità meccanica e stabilità termica, sopportando temperature di alcune centinaia di gradi C e resistendo a un gran numero di acidi e basi.

Esiste già una tecnologia per la prima fase del processo che produce la coppia di elettroni tramite fotovoltaico accoppiato con elettrolisi, ma la suddivisione in due parti è più onerosa dato che un pannello solare deve prima produrre elettricità da usare per eseguire il dry water splitting, via elettrolisi.

Vantaggi del metodo Shankar

La nuova procedura si serve direttamente della luce solare per generare idrogeno, risolvendo due problemi intrinseci delle celle.

1) La superficie di nitruro di carbonio, progettata con nanofili orientati verticalmente per catturare la luce diffusa da qualsiasi angolazione, funziona anche nei giorni nuvolosi.

2) I progressi nell’immagazzinamento dell’energia nelle batterie procedono con relativa lentezza. Il combustibile a idrogeno agisce come un’utile riserva. In forma compressa è denso e portatile, con la facoltà d’impiegarlo ogni volta che se ne ha bisogno.

Alternative

La melammina, una sostanza chimica ampiamente impiegata nell’industria del cemento e per fabbricare stoviglie e laminati in plastica, può essere usata al posto del nitruro di carbonio.

Il laboratorio di Shankar ha anche prodotto idrogeno dal metanolo, meno pulito dell’acqua, ma pratico in alcuni contesti.

Considerazioni finali e collegamenti

Il concetto di splitting dell’acqua è legato a un processo avanzato di fotocatalisi e fotobiocatalisi (ad imitazione della fotosintesi) usando nanomateriali, con l’intento di migliorare l’efficienza nel generare idrogeno.

Il progetto HETMAT (Heterostructure nanomaterials for water splitting), finanziato dall’Unione Europea dal 2013 al 2016, puntava a sviluppare la scissione dell’acqua concentrandosi su materiali nanostrutturati. Tuttavia, non sono state rilevate significative novità legate a questo studio.

 

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Immagini: Università dell’Alberta

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