La tecnologia agisce sul linguaggio e ne determina il costante sviluppo.
La società dell’informazione è passata dall’espressione verbale, alla stampa, alla multimedialità. I mezzi di comunicazione nati grazie ad internet creano spazi virtuali, interconnessi e d’immediata fruizione con ricadute sociali e nuove sfide professionali.
Parliamo di questi cambiamenti con Giovanni Minoli, un protagonista della scena televisiva dove ha anticipato fenomeni culturali valorizzando le peculiarità italiane. Giornalista, conduttore e produttore ha ideato programmi di grande successo fra cui “Mixer”, “La storia siamo noi”, “Quelli della notte” con Renzo Arbore e la soap opera “Un posto al sole”, per citarne solo alcuni. Attualmente collabora con Radio24 dove conduce la trasmissione di approfondimento Mix24.
Quali trasformazioni comporta il confronto fra televisione e nuovi media?
Ogni innovazione richiede che si capisca lo specifico di quella tecnologia.
Il teatro è un linguaggio, il cinema, la televisione ed internet sono linguaggi. In origine si è fatto il cinema a teatro fino a quando non si è capita la potenzialità del nuovo mezzo e si è elaborata una narrazione attraverso le riprese ed il montaggio.
Quando è arrivata la televisione, si è portato il teatro o il cinema sul piccolo schermo. Poco per volta la tecnologia ha spiegato agli autori che era una cosa diversa. Con internet siamo ancora agli inizi. Le web series incominciano solo ora ad essere una modalità di racconto separata dalla cronaca immediata di un twitter o di un selfie che in principio sembrano una cosa pazzesca e poi diventano una noia terribile.
I social media favoriscono la partecipazione. E’ una novità significativa?
L’interazione c’è sempre stata perché gli spettatori potevano telefonare nei programmi in diretta e la voce è meglio di un commento scritto al volo.
Le ultime tecnologie offrono una maggiore democratizzazione o si prestano ad una più sofisticata manipolazione?
Tutte e due le cose insieme. Le racconto una breve storiella. Si ricorda quando sono nate le televisioni libere? Prima erano libere, poi sono diventate private, poi è diventato Berlusconi. Capiterà la stessa cosa. È come la droga, le prime volte te la danno gratis davanti alla scuola. Non appena ti sei assuefatto devi iniziare a pagare.
Cosa significa questo? I processi di aggregazione e di concentrazione hanno sempre portato all’oligopolio ed al monopolio. E’ andata sempre così.
I nuovi media hanno necessità di un filtro. Chi lo deve porre?
L’autore deve assumersi quest’impegno, è una questione di competenza. La televisione ha una potenza suprema rispetto agli altri strumenti di comunicazione finora inventati. Non si può pensare di affidare un mezzo influente a qualcuno che non ha una preparazione professionale adeguata.
L’abuso di tecnologia svilisce il lavoro degli autori?
Una volta si scriveva con la piuma d’oca, oggi con l’iPad. Il problema non è il dispositivo usato, ma se si ha qualcosa da dire. Negli anni ’80 si sono svuotate le trasmissioni di contenuti con Berlusconi che ha sdoganato la parte nobile ed ignobile di noi. Contemporaneamente il servizio pubblico non ha più svolto il suo ruolo ed ha smesso di produrre autori e dirigenti che avessero una maggiore responsabilità, giustificata dal pagamento di un canone.
Con quali ricadute sul pubblico?
Si può scegliere se far crescere il cittadino o trasformarlo in ebete consumatore. La RAI dovrebbe avere la funzione di operare nell’interesse dello spettatore. Le televisioni commerciali, pur con certe regole, orientano nella direzione del mercato.
Che peso ha la politica?
La terribile lottizzazione degli anni ’60 e ’70 ha spinto la concorrenza verso l’alto e si è fatto ricorso al meglio delle intelligenze.
Oggi non c’è più concorrenza anzi c’è, ma verso il basso perché si è perso il gusto dell’allevamento. L’educazione è una fatica e ha un costo che si paga anche in solitudine. È una vocazione che deve essere molto motivata, quasi da prete o da grande artista.
Come vede la crisi attuale?
S’iniziano a percepire i primi segnali di reazione. I ragazzi che hanno 16-20 anni sono già diversi dai 30-40enni che sono purtroppo persi. Non tutti, ma sono generazionalmente figli di una cultura dell’abbondanza, del tutto dovuto. Saranno più poveri dei loro genitori e vivono questa situazione come se fossero delle vittime. I ragazzi partono da un dato di fatto e sanno che devono ricominciare.
RIPRODUZIONE RISERVATA – © SHOWTECHIES – Simona Braga
Foto di: ENRICO ANNIBALE RUGGERI
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