TROVATO METODO PER RICICLARE QUASI TOTALMENTE IL PLEXIGLAS

PLEXIGLAS® Röhm

Ricercatori dell’ETH Zurigo hanno scoperto come scomporre uno dei materiali più diffusi fino ai suoi elementi base, aprendo nuove possibilità per il recupero delle plastiche.

Il Plexiglas® è stato inventato dal chimico Otto Röhm e brevettato nel 1933.

Questo particolare tipo di plastica è usato nei più svariati modi ed ha come denominazione chimica polimetilmetacrilato (PMMA). Si tratta di un polimero stabile, trasparente e infrangibile, un “vetro organico” onnipresente che con le sue caratteristiche si presta sia in ambito industriale che in progetti di design.

Resistenza e leggerezza contribuiscono alla crescente diffusione del vetro acrilico (PMMA)  nei settori aerospaziale e automobilistico, negli schermi e nell’edilizia, con una produzione globale annua di circa 3,9 milioni di tonnellate.

Attualmente, il riciclo delle plastiche è prevalentemente limitato alle bottiglie in PET o polietilene che presentano una composizione chimica identica e molecole polimeriche di lunghezza simile. Gli additivi utilizzati per migliorare proprietà come colore, morbidezza o resistenza ai raggi solari sono anch’esse analoghe.  Questo consente di fondere la plastica raccolta e riformarla in nuove bottiglie.

Al contrario, le plastiche di diversa tipologia e qualità vengono solitamente incenerite per generare calore, ad esempio negli impianti di produzione del cemento.

Athina Anastasaki - Professoressa responsabile del laboratorio di materiali polimerici ETH Zurigo

Un team di scienziati guidato da Athina Anastasaki, responsabile del Laboratorio di Materiali Polimerici dell’ETH Zurigo e vincitrice del Golden Owl 2021 per l’eccellenza nell’insegnamento, ha scoperto un metodo che permette la degradazione quasi completa del PMMA nei suoi monomeri costitutivi che, grazie all’uso di additivi, possono essere facilmente purificati tramite distillazione per ottenere prodotti di elevata qualità, pronti per la sintesi di nuovi polimeri di plexiglass.

Rilevanza

Il processo sviluppato è estremamente stabile ed è efficace anche con catene polimeriche molto lunghe, composte da 10.000 unità monomeriche. La presenza di additivi come copolimeri, plastificanti, coloranti e la maggior parte delle altre plastiche ha un impatto minimo sulla rottura dei legami. Persino usando vetro acrilico multicolore proveniente dal mercato del fai-da-te, la resa è tra il 94 e il 98%.

Semplicità

Anastasaki ha sottolineato come il procedimento sia sorprendentemente facile avendo solo bisogno di: un solvente a base di cloro e il riscaldamento della miscela disciolta a una temperatura tra 90 e 150 °C, per avviare la reazione di depolimerizzazione con l’ausilio della luce UV o della luce visibile.

Come molte altre plastiche importanti, come il polietilene e il polipropilene, i polimeri del vetro acrilico sono costituiti da una catena polimerica di atomi di carbonio con varie ramificazioni laterali, a seconda del tipo di plastica. Fino ad oggi, queste catene uniformi hanno rappresentato una sfida chimica insormontabile per la scissione mirata in monomeri, poiché non presentano punti di attacco specifici per tali reazioni.

Vantaggi rispetto alle alternative finora note

L’unico metodo attualmente impiegato nell’industria per degradare completamente le catene di carbonio omogenee è la pirolisi. Questo processo comporta la decomposizione termica a circa 400 °C. Tuttavia, tali reazioni non sono selettive e generano una miscela di prodotti di scissione variabili. L’elevato fabbisogno energetico e i costi associati alla purificazione dei componenti risultanti frenano l’efficienza economica della pirolisi.

Negli ultimi anni, diversi scienziati hanno sperimentato polimeri modificati, introducendo gruppi molecolari facilmente staccabili alle estremità delle catene polimeriche che innescano la decomposizione dalla fine. Questo approccio raggiunge rese superiori al 90%, ma ha dei limiti. Oltre alla necessità di essere integrati nella produzione delle plastiche, i gruppi terminali reattivi diminuiscono significativamente la stabilità termica dei polimeri e, di conseguenza, i loro utilizzi. Inoltre, molti additivi plastici compromettono la resa delle reazioni, riducendo l’efficacia soprattutto per le lunghe catene polimeriche tipiche delle plastiche commerciali.

Il ruolo chiave del solvente

Come spesso accade in chimica, la scoperta è avvenuta per caso. La docente ha spiegato che stavano cercando catalizzatori specifici per promuovere la scissione mirata in monomeri quando un esperimento di controllo ha rivelato che il catalizzatore non era nemmeno necessario.

Il solvente clorurato in cui era disciolto il campione di vetro acrilico frantumato era sufficiente a scindere quasi completamente il polimero con l’aiuto della luce UV.

Analizzando in dettaglio la scissione, i ricercatori hanno individuato un meccanismo inaspettato. L’agente attivo è un radicale cloro che si libera dal solvente clorurato quando eccitato dalla luce UV. Ciò che ha stupito il team è che la luce di lunghezza d’onda elevata è in grado di rompere il legame tra il cloro e la molecola del solvente. Questo fenomeno avviene nell’ambito di un processo fototermico relativamente raro, in cui una piccola frazione delle molecole di solvente assorbe luce UV ad alta lunghezza d’onda.

Anastasaki ha potuto contare sull’aiuto di specialisti dell’ETH Zurigo, fra cui Tae-Lim Choi (del Laboratorio di Chimica dei Polimeri) che ha calcolato gli stati elettronici teorici delle molecole coinvolte, mentre Gunnar Jeschke, dell’Istituto di Scienze Fisiche Molecolari, ha condotto misurazioni di risonanza paramagnetica elettronica che hanno confermato sperimentalmente le previsioni teoriche.

Verso un processo senza cloro 

L’obiettivo è quello di eliminare l’uso del solvente clorurato dannoso per l’ambiente.

Non è ancora chiaro come sarà implementato a livello industriale il sistema sviluppato dall’ETH. In ogni caso, Anastasaki e il suo team hanno aperto la strada a nuovi metodi di riciclo basati sulla scissione mirata delle catene di carbonio delle plastiche, finora chimicamente inaccessibili.

Lo studio, pubblicato sulla rivista Science, è consultabile a questo link.

 

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Immagine: Röhm

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