Un traguardo importante che punta a migliorare le caratteristiche strutturali dei dispositivi singoli, facilitando la diffusione a livello commerciale.
Da decenni, il silicio è il materiale più utilizzato per lo strato di assorbimento della luce nelle celle solari. La sua produzione risulta però onerosa e si sta avvicinando al limite massimo teorico di efficienza, ostacolando ulteriori progressi.
Recentemente si è iniziato ad esplorare il campo delle perovskiti, una famiglia di composti cristallini.
L’alternativa economica al silicio è maggiormente efficiente grazie ad uno strato a base di ammonio, ma ha una durata di vita relativamente breve. L’esposizione prolungata alla luce solare, le fluttuazioni estreme di temperatura e l’umidità causano il degrado nel tempo delle celle solari in perovskite, finora limitata dalla sua mancanza di stabilità a lungo termine.
Un gruppo di studiosi guidato da Ted Sargent della Northwestern University, nell’area metropolitana di Chicago negli Stati Uniti, ha ora sviluppato uno strato più robusto, basato sull’ammidinio.
Negli esperimenti, il nuovo rivestimento è risultato 10 volte più resistente alla decomposizione rispetto a quelli convenzionali a base di ammonio.
La ricercatrice post-dottorato, Yi Yang, ha spiegato come il team abbia introdotto ligandi di ammidinio, molecole stabili che possono interagire con la perovskite per fornire una passivazione durevole dei difetti ed un effetto protettivo. Le molecole a base di ammonio presentano un atomo di azoto circondato da tre atomi d’idrogeno e da un gruppo contenente carbonio, mentre le molecole a base di ammidinio sono costituite da un atomo centrale di carbonio legato a due gruppi amminici. Le molecole di ammidinio risultano più resistenti perché la loro struttura consente una distribuzione uniforme degli elettroni.
In sintesi, i ligandi sono molecole che interagiscono con un materiale per modificarne le proprietà. La reazione dell’ammidinazione è un metodo per ottenere una passivazione chimica (un processo per cui una lega diviene meno solubile e meno soggetta a corrosione) arricchendo i ligandi con gruppi capaci di ridurre i difetti della perovskite.
La cella solare ottenuta ha raggiunto l’impressionante efficienza del 26,3%, convertendo con successo tale percentuale di luce assorbita in elettricità. Dopo 1.100 ore di test in condizioni difficili, ha mantenuto il 90% dell’efficienza iniziale, triplicando la durata di vita T90, ovvero il tempo necessario affinché l’efficienza scenda del 10% rispetto al valore iniziale, sotto l’esposizione a calore e luce.
Bin Chen, professore associato di ricerca in chimica, ha evidenziato come finora si fossero trascurati gli strati protettivi che invece risultano importanti per migliorare le prestazioni complessive delle celle solari in perovskite, mentre Mercouri Kanatzidis ha sottolineato come l’evoluzione nella durata non comprometta l’eccezionale efficienza, avvicinandoci ad un’alternativa pratica ed a basso costo al fotovoltaico basato sul silicio.
La ricerca è stata pubblicata sulla rivista Science.
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Foto: Northwestern University
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